Non ci rASSEGNIamo: ADI scende in piazza contro la vergogna del precariato universitario

Venerdì 24 febbraio, in occasione dell’imminente approvazione del Decreto Milleproroghe, l’Associazione Dottorandi e Dottori di ricerca in Italia (ADI) scende nelle piazze di tutta Italia per dire basta al precariato sistemico dei giovani ricercatori.

Da troppo tempo il lavoro di ricerca si regge principalmente su un ricatto ai danni dei giovani precari: avere a disposizione risorse di famiglia, partner, lavoretti aggiuntivi, oppure abbandonare la carriera accademica che paga poco, male e in modo discontinuo. Una vera e propria giungla dove quei pochi che resistono sono spesso costretti ad andare all’estero.

I precari costituiscono una parte consistente dei lavoratori nell’ambito della ricerca e della didattica: conducono esperimenti, gestiscono progetti, insegnano e contribuiscono alla rilevanza internazionale delle nostre università e dei nostri enti di ricerca. La macchina accademica, di cui i precari rappresentano il motore, è sotto-finanziata a tutti i livelli, e a pagarne le spese sono soprattutto i giovani che si affacciano alla professione. 

Una volta conseguito il dottorato di ricerca, la legge Gelmini configurava per i giovani ricercatori italiani un inquadramento anomalo, controverso, unico in Europa e condannato dalle istituzioni europee come inadeguato: l’assegno di ricerca. Si tratta di posizioni parasubordinate di durata annuale, eventualmente rinnovabili, generalmente finanziate a progetto. Posizioni intermittenti e saltuarie: si registrano lunghi periodi di disoccupazione tra un assegno e l’altro, che secondo le rilevazioni ADI nel 45% dei casi superano anche i sei mesi. Oltre a prevedere una remunerazione insufficiente a mantenersi autonomamente nelle principali città universitarie italiane, non garantiscono alcun accesso ai diritti basilari, come maternità e paternità, malattia e tredicesima. Il tutto a fronte di un lavoro che impegna ben più delle tradizionali 40 ore settimanali e che si rivela di fondamentale importanza per la formazione dei giovani studenti e la tenuta dei gruppi di ricerca nei dipartimenti universitari.

Per queste ragioni, molti giovani dottori di ricerca scelgono di emigrare all’estero, in Europa così come in tutti quei Paesi extra-europei che garantiscono migliori condizioni di lavoro e maggiori prospettive per il futuro. Secondo i dati recentemente diffusi dalla rivista Nature, fra i professori assunti nelle Università più prestigiose degli Stati Uniti, il 35% ha conseguito il dottorato di ricerca in Italia. In Italia tra l’80 e il 90% dei dottori di ricerca, che già sono un numero esiguo rispetto ad altri paesi OCSE, viene espulso dall’Accademia appena dopo il dottorato o nei primi anni successivi: una vera e propria emorragia di competenze, risorse, capacità di innovazione e sviluppo.

ADI si batte da anni per portare queste problematiche all’attenzione del pubblico e delle istituzioni. La nostra richiesta di abolizione dell’assegno aveva trovato un parziale riscontro con la conversione del Decreto Legge 36/2022 ed è diventata parte delle misure di attuazione del PNRR. Questo intervento normativo, infatti, ha introdotto in sostituzione dell’assegno di ricerca un inquadramento più sicuro e con tutele più estese: il contratto di ricerca. A sei mesi dall’approvazione della normativa, del contratto di ricerca non c’è traccia: il Ministero ha scelto di prorogare la fattispecie dell’assegno senza finanziare i contratti che, essendo migliorativi sotto il profilo dei diritti e della retribuzione dei ricercatori, costano ovviamente di più. Tale maggiore spesa non solo è ampiamente giustificata da considerazioni di dignità intrinseca e professionale dei ricercatori, ma anche dal beneficio che un Paese che vuole crescere riceve dalla qualità della ricerca prodotta nelle sue università. Si aggiunga a tale considerazione anche quella di costo sostanziale che già la comunità paga per i “cervelli in fuga” e l’espulsione di migliaia di ricercatori. Inoltre, il contratto di ricerca costituirebbe un primo passo, sebbene da solo insufficiente, verso carriere di ricerca in linea con i principali Paesi europei. 

Da ultimo, la cifra necessaria a finanziare il contratto di ricerca è esigua, se paragonata tanto alle finanze pubbliche allocate su altre voci, quanto ai benefici che esso porterebbe: basterebbero 165 milioni di euro per invertire la rotta e garantire il contratto di ricerca a tutti gli assegnisti delle nostre università. Si tratta di un investimento necessario in formazione e ricerca, sui nostri giovani e per il nostro Paese. Lo scandalo tanto gridato dei cervelli in fuga è, in realtà, un semplice caso di sottofinanziamento strutturale delle università: è ora di dire basta a questa vergogna tutta nostrana!